La criminalità organizzata, la
'ndrangheta in particolare, ha una caratteristica che dovrebbe
farci riflettere: trasformare un problema in una risorsa. É questo,
a voler ben vedere, quello che abbiamo potuto osservare negli anni
passati; sia negli anni Cinquanta/Sessanta che nella successiva fase
di immigrazione dei decenni Ottanta/Novanta.
Se cerchiamo nei cassetti della memoria
le immagini dei flussi migratori Sud/Nord più antichi, ci verranno
in mente le immagini in bianco e nero del Neorealismo italiano:
le valige di cartone, i cartelli Non si affitta ai meridionali,
i treni Espresso e Accellerato – tanto cari a Nanni
Loi – che portavano 'orde' di Terroni a casa dei
Polentoni, le baraccopoli intorno alle grandi città del Nord
in fase di industrializzazione, i Totò & Peppino
di "noio... volevam... volevàn savoir... l'indiriss... ja?",
le pellicole alla Ladri di biciclette, i libri come Totò
il buono del luzzarese
Cesare Zavattini divenuto poi un film dal titolo inequivocabile:
Miracolo a Milano.
Era questa sostanzialmente la base
delle migrazioni al Nord dei Meridionali (tra cui anche mio papà,
originario di Cerignola; e mio nonno Donato, segretario della
locale sezione del Pci e amico di Giuseppe Di Vittorio);
ma negli anni qualcosa è cambiato. E, per certi aspetti, ne sono stato
testimone.
Quando a metà degli anni Novanta
facevo il "vigile urbano" a Brescello (per
correttezza si deve dire: Agente di polizia municipale), per
un certo periodo io e i miei colleghi eravamo stati incaricati di
verificare le iscrizioni agli elenchi degli artigiani, di
coloro che chiedevano di aprire un'attività in proprio. Dovemmo
subito abbandonare l'idea tradizionale dell'artigiano, con l'officina
o la bottega; quando facevamo i sopralluoghi ci recavamo nelle case
dei richiedenti e venivamo fatti accomodare in cucina o al
massimo in soggiorno, per mostrarci quattro documenti in
croce: richiesta della partita IVA, denuncia di inizio attività,
qualche fattura per l'acquisto dell'attrezzatura, un registro per
segnare i lavori svolti e un blocco di fatture da compilare a mano.
Chiedevamo poi di visionare l'attrezzatura, che era più o meno la
stessa che avevo a io casa per fare la minuta manutenzione: cazzuole,
frattassi, cabassi, qualche cavalletto da muratore. Il tutto
ricoverato nel bagagliaio della macchina di famiglia, che dal
lunedì al venerdì rappresentava l'auto aziendale, per
tornare la macchina per andare a fare la spesa e per andare a spasso
nel fine settimana. Tutto regolare, ci veniva detto dall'Ufficio
Commercio del municipio. E noi ci limitavamo a "verificare"
auto-dichiarazioni di aspiranti artigiani. Ne ricordo una
particolarmente curiosa: immanicatore di badili. Il soggetto
in questione ha cercato per tutto il tempo della verifica
amministrativa di farmi capire l'importanza del suo lavoro, che
consisteva nel mettere il manico ai badili e verificarne il corretto
equilibrio.
Inutile dire che quasi la maggioranza
dei richiedenti – a Brescello – erano di Cutro e di Isola
Capo Rizzuto, venuti a Brescello per lavorare nelle imprese dei
calabresi che oramai in zona si erano fatti un nome e avevano avviato
imprese edili che, nel giro di pochi anni, sono riuscite a
soppiantare quasi completamente gli artigiani e piccoli impresari
edili della zona. Solo che le nuove imprese edili (alcune delle quali
subivano tutti gli anni un incendio fortuito, nel quale andavano
puntualmente distrutti i documenti fiscali), quasi non avevano
dipendenti: e costringevano i "nuovi arrivati" ad aprire
una partita IVA e diventare artigiani, per poi fatturare il lavoro
che facevano per le imprese dei 'compaesani'. "Tutto
regolare; c'è il rispetto della normativa", ci veniva
risposto all'Ufficio Commercio, quando davanti a casi eclatanti
sollevavamo una qualche perplessità. Ma capitava, ogni tanto, di
riconoscere le stesse attrezzature che venivano usate per le denunce
di inizio attività da parte di più componenti della stessa
famiglia. E alla fine notificavamo le iscrizioni al registro delle
imprese agli artigiani: tutte con la stessa firma.
Oggi, alcune di quelle attività sono
al centro della cronaca nera della Bassa reggiana: o per aver
subito degli incendi di attrezzatura o per aver emesso fatture false.
In molti casi è ventilata dagli investigatori la vicinanza alla
'ndrangheta.
Ed ecco, allora, l'uso dell'emigrazione
da parte della criminalità organizzata per formare, così, un "brodo
di coltura" per le proprie attività illecite: ecco la
trasformazione di un problema in una risorsa,
quella che chiamo: L'unità (mafiosa) d'Italia. Una
volta spazzata via dal mercato l'impresa edile locale (che non
sarebbe stata sensibile alle richieste della 'ndrangheta), si sono
creati labili equilibri economici con compaesani che sono stati
costretti a diventare artgiani "farlocchi", creando così
lavoro nero e concorrenza sleale; e oltrettutto erano facili da
ricattare, perché oltre alla "carne da cantiere" (con
mogli e figli al seguito) la 'ndrangheta ha portato al Nord anche la
propria mentalità. Le stesse dinamiche mafiose del Sud esportate al
Nord: L'unità (mafiosa) d'Italia.
Ma c'è di più: una volta impiantate
le famiglie ricattabili dai "grandi nomi", non ci si è
limitati a rendere schiavi del terzo millennio quei lavoratori che
lasciavano la Calabria per il Nord. Si è detto loro (e ai loro
familiari) anche chi dovevano votare, determinando così un surplus
di valore per la criminalità organizzata: i "grandi nomi"
potevano – a questo punto – mettere in piedi il mercato delle
preferenze, per far eleggere prima politici locali che avevano
espresso vicinanza alle cosche, per poi passare a segnalare ai
"propietari" delle liste civiche i nomi da inserire nelle
liste stesse.
E il gioco è fatto: l'immigrazione
economica che spingeva famiglie senza lavoro a trasferirsi al Nord è
stata trasformata in risorsa. A queste condizioni non ci può essere
interesse a sviluppare il Sud, perché deve essere mantenuta la
convenienza a gestire i flussi migratori verso il Nord, per
determinarne la "colonizzazione" del territorio
economicamente importante per la criminalità organizzata.
Ma il Nord – economicamente parlando
– non è una "risorsa rinnovabile" infinita; e quando il
territorio avrà dato tutto quello che poteva dare, verrà
abbandonato: ma nel frattempo sarà stato violentato, violato, offeso
nei valori più cari. Nei valori che ne hanno determinato la
ricchezza.
Devono allora essere ascoltate le
parole di chi – a ragion veduta – lancia allarmi: magistrati,
"poliziotti", economisti e sindacalisti ci stanno dicendo
che la politica, così come il cittadino, deve stare attenta a non
prendere il caffè con il mafioso di turno: «Il
mafioso ha bisogno che il sindaco, il medico e il prete del paese si
rapportino con lui, ma se questi lo isolano ignorandolo, non
combattendolo armati, ma semplicemente non dandogli spazio per
interloquire è già un grosso risultato».
Parole di Nicola
Gratteri, procuratore
aggiunto a Reggio Calabria in attesa dell'ufficializzazione della
nomina a capo della DDA di Catanzaro.
Cosa
vogliamo fare?
Donato Ungaro
Tanto di cappello per chi ha scritto un articolo così lucido e realista, che non tergiversa nelle rivendicazioni storico culturale che assomigliano più ad un monologo da cabaret. Io sono un dirimpettaio di Brescello e finalmente trovò qualcuno che la pensa come me. Complimenti sig. Ungaro.
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