Intimidazione: parola o atto che tende a intimorire. SIN:
minaccia. La definizione che il dizionario ci offre per la parola
intimidazione è estremamente chiara; ma forse è ancora più chiaro
il suo sinonimo: MINACCIA. Si può quindi dire che l'obiettivo
di una intimidazione è creare timore attraverso una minaccia; il
messaggio può essere anche latente. E come reagisce una persona
normale, in condizioni normali, di fronte a una messaggio di
minaccia? Cambia atteggiamento. Credo che questo sia l'esempio più
eclatante di una teoria evidente: la criminalità organizzata è
fondata sulla comunicazione. Potremmo addirittura dire che la “mafia”
È comunicazione. Comunicazione è infatti uno scambio
di informazioni che determina un cambiamento in almeno uno dei
soggetti che interagiscono. E cosa c'è di più vicino a un
“cambiamento” di una persona che agisce in forza di una minaccia?
Se pensiamo alle classiche intimidazioni il pensiero corre subito
alle immancabili buste con i proiettili, ma anche alla recente testa
di capretto lasciata sull'auto di Fabiola Foti, direttrice
della testata on-line L'Urlo di Catania; alle
generiche lettere minatorie e auto date alle fiamme o alle
saracinesche divelte dalle bombe piazzate dalla camorra alla
pizzeria Sorbillo di Napoli, appena qualche settimana fa. Qui
tutti siamo concordi nel dire che i messaggi sono chiaramente di
stampo mafioso. Ma quando le cose sono diverse, più subdole, spesso
le idee divergono; e non tutti sono convinti della matrice
simil-mafiosa di certi atti che tendono a intimorire. Non
sempre si tratta di una maniera convincente di far capire che è
necessario pagare il pizzo; oppure – per quanto riguarda i
giornalisti – che non è il caso di occuparsi di certi temi, di
determinati personaggi. L'atto intimidatorio può avere anche altre
connotazioni, pur raggiungendo sempre lo stesso identico scopo: far
cambiare atteggiamento, modificare un comportamento.
E allora ecco che le buste con i proiettili lasciano ipoteticamente
il posto alle mail, gli ordigni esplosivi vengono sostituiti
da questioni burocratiche e le teste di capretto sono trasformate in
querele temerarie. È bastato sostituire un aspetto contestuale per
destrutturare il modello, mimetizzando così il vero senso del
messaggio: è tutto legale! non c'è niente di mafioso. È talmente
tutto considerato svolto in un ambito normale che anche chi si occupa
istituzionalmente di difesa della legalità non comprende il
linguaggio para-mafioso dell'atto che subisce; e scambia la
prudenza che adotta per evitare fastidi come un normalissimo
atteggiamento di correttezza relazionale. Non si presenta denuncia
dell'atto subìto non per paura di ritorsioni, ma per una fraintesa e
sempre valida “difesa della privacy”.
È la mafia 2.0; è il messaggio che rende complici prima ancora del
rendersi conto di esser vittime di un raggiro. Ci si veste – di
fatto – da carnefici continuando a indossare i panni verginali e
purificanti della legalità: senza SE e senza MA. La cosa
incredibile è che si può tranquillamente, con la coscienza più che
pulita e serena, continuare a dire: «...io
non ho fatto niente...».
Senza rendersi conto che proprio quel non aver fatto niente è la
propria colpa; è il non riuscire a uscire da uno schema prefissato,
che rende comunque colpevoli. È il non vedere le cose sotto altre
lenti, se non quelle dello stereotipo e del pregiudizio, che condanna
alla complicità. È il non vedere il mafioso con la coppola e la
lupara che fa dire: «...qui
la mafia non esiste...».
Ma intanto si fanno inconsapevolmente i conti con atteggiamenti che
sono la quintessenza dello spirito mafioso.
La violenza “a bassa intensità”
rischia di essere confusa nella voce: Altro.
Sul filo del rasoio che divide la regola del quieto vivere dal
rispetto di regole non scritte che prevaricano i concetti di
legittimità. Se poi addirittura di violenza “fisica” non si
parla, il contesto mafioso è rimosso. Ancor meglio se i “messaggi”
arrivano da istituzioni, da soggetti ben riconoscibili e con nomi
altisonanti: da professionisti affermati. Ma com'è sottile il
diaframma che separa l'utilizzo del nome di una cosca (che già di
per sé rappresenta un'intimidazione) e il peso di un ruolo
professionale o istituzionale (il quale, se s-correttamente
utilizzato comporta lo stesso atteggiamento).
Ecco
la semiotica
mafiosa,
che mostrandosi apertamente e in una veste pulita ottiene uno scopo
che rischia di strabordare in un atteggiamento intimidatorio. Se il
fine è lo stesso anche il metodo si parifica; basta una
“spintarella” alla visione del messaggio, per alzare o abbassare
a proprio vantaggio l'asticella dell'onestà. Il
mezzo È
il messaggio,
diceva Herbert
Marshall McLuhan.
Parimenti, lo scopo raggiunto qualifica il contesto in cui il
messaggio si muove, determinandone – attraverso la motivazione –
il movente.
È un'interpretazione; e come tale cambia tra chi la determina e chi
la subisce.
Si
tratta di creare timori; e alle volte va bene il tritolo come la
carta bollata.
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